Editoriale
Nel momento storico in cui le fondamenta della più grande democrazia al mondo sono in gioco (ed è stato un grande pensatore italiano, Norberto Bobbio, a coniare il concetto diffuso worldwide di “gioco democratico”), vale la pena ricordare che ogni gioco degno di essere definito tale presuppone sempre – attraverso un sistema di regole – una profonda istanza di democrazia. A giocare questo gioco piuttosto serio, che ha solo a che fare con i destini generali del pianeta, sono quelle singolari forme di vita cui Aristotele ha affibbiato un’etichetta ancora in voga dopo circa 2400 anni, gli “animali sociali”; diretta evoluzione, così almeno pare, degli animali che siamo abituati a vedere in natura.
In una qualche misura, se le leggi sono l’insieme delle regole che gli “animali sociali” si danno per istituire le società in cui vivono, le arti e la cultura operano alla base delle fondamenta di qualsiasi società per dare nuova e costante linfa vitale, creativa, provocatoria ai principi che ne guidano la convivenza. Dal momento che – ce l’ha insegnato Wilde – “la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita”, è bello pensare a come il consolidamento del vivere democratico nel secondo Novecento abbia coinciso con l’esplosione in ogni ambito artistico di un’espressività innovativa e radicale, in grado di riconnettere l’umano anche con la sua dimensione ludica, ingenua, dopo gli orrori della guerra. Una memoria di Pino Pascali è emblematica in tal senso: “Sono nato nel 1935. I miei primi giocattoli erano mucchi di oggetti trovati in casa che rappresentavano armi”.
Il gioco come tentativo di reincantamento del mondo, la riscoperta di quel punto di contatto tra segno, suono e disegno che Toti Scialoja ha perfettamente sintetizzato come il recupero dell’ “infanzia delle parole” che contiene al tempo stesso la possibilità della poesia e della pittura: come si ripete la rima, così si ripete il gesto sulla tela o sulla materia che plasma la scultura. Il secondo episodio di FM, il magazine di Fondamenta, vorrebbe allora provare a sintonizzare le frequenze su cinque nuove coppie/suggestioni tematiche, stavolta rigorosamente in rima, in onore alle “confluenze” che danno il titolo alla mostra che celebra il legame tra i due numi tutelari di questo numero, Pascali e Scialoja.
Animale / Spaziale
Elio Grazioli
Sin dagli anni sessanta ragni, balene, giraffe e ghepardi sono protagonisti degli universi visivi di Pino Pascali e Toti Scialoja, i quali, non a caso, si identificano ciascuno in un animale: celebre è la filastrocca di Pascali sul serpente, mentre l’animale-totem di Scialoja è il topo. Con i loro bestiari antinaturalistici, irriverenti e spiazzanti, i due artisti hanno proposto variazioni dell’ancestrale rapporto fra animale e artista, radicato nelle avanguardie, e dalle neoavanguardie ripreso e declinato in una prospettiva spaziale, capace di rinnovare radicalmente i linguaggi. Ora, in una contemporaneità attraversata da sconvolgimenti tecnologici e crisi ecologiche, in cui la nozione di “antropocene” obbliga a un nuovo cambio di prospettiva, il frequente ricorso alla questione animale da parte degli artisti contemporanei che significato assume? È forse un escamotage per affrontare il rischio di nuove estinzioni?
“Cambio di prospettiva” è la formula giusta, è ciò di cui si sente il bisogno a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, arte compresa. Lo sentirono le avanguardie e le neoavanguardie. Ma al tempo stesso proprio loro hanno messo in discussione anche la nozione di cambiamento e ancor di più quella di prospettiva. L’animale torna allora nella riflessione non solo come cambio di punto di vista o di punto di fuga, ma in una visione diciamo così non euclidea, multidimensionale, olistica. Alcuni affermano che è impossibile sapere “cosa si prova a essere un pipistrello” (Thomas Nagel), altri che la questione è il “divenire animale” (Gilles Deleuze), molti che da sempre siamo “ibridi” o “simbiotici” (Donna Haraway), tutti modi recenti di inserire il rapporto e il confronto con l’animale in una visione in cui tutto è legato.
Sintomo dei rivolgimenti della storia, dello sviluppo tecnologico e della crisi ecologica del XXI secolo, la questione animale è tornata al centro della riflessione e dell’arte come non mai. L’uomo deve confrontarsi con gli altri esseri, non separarsene. Problematizzata dalla filosofia (Jacques Derrida, Giorgio Agamben, Dominique Lestel Vienne Despret, Jean-Luc Nancy, Felice Cimatti) e dalla letteratura critica contemporanea (Filipa Ramos, Ana Teixeira Pinto, Steve Baker), la relazione tra affetto artistico e animalità è diventata un tema pregnante e quanto mai vario e ricco di prospettive interdisciplinari e di sviluppi intermediali. Le esposizioni sul tema si moltiplicano in tutto il mondo: la Documenta 13 di Kassel del 2012, Animals. Respect/Harmony/Subjugation al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo nel 2018 e The Animal Within al Mumok di Vienna nel 2022 ne sono solo degli illustri esempi iniziali. Dalle foto-pitture di antilopi di Gerhard Richter alle sculture di specie estinte di Kiki Smith, dai disegni di lacerti di Berlinde De Bruyckere alle tele di ragno di Tomás Saraceno, alle esposizioni ecosistemiche di Pierre Huyghe, gli artisti sono ormai migliaia, gli esempi si trovano ovunque.
Da un lato, sul filo della ormai lunga storia delle avanguardie e neo, il riferimento all’animale significa la messa in discussione delle presunte certezze e categorie del pensiero, delle categorie e delle discipline, la riflessione sulla diversità dei linguaggi umani. Dall’altro esso rimanda all’esercizio della consapevolezza di far parte di un unico ecosistema, non solo in senso scientifico e antropologico, ma anche di pensiero e di azione. Dunque interdisciplinarità e intermedialità, e insieme moltiplicazione dei modelli di pensiero e di espressione, questo fa l’arte. L’arte è il nodo e l’intensità: la mente, la mano, il cuore, diceva qualcuno; il pensiero, la forma, l’emozione; le discipline, i media espressivi, il potere dell’immagine, hanno detto altri.
Gioco / Scopo
Eloisa Morra
“Topo, topo / senza scopo / dopo te cosa vien dopo?”. In una delle sue poesie-performance più note Scialoja intercetta molti leitmotive di questo secondo episodio di FM Magazine: il gioco e le sue regole, l’animale antropomorfo, la ripetizione del gesto d’arte, il rapporto tra piani temporali e obiettivi inattesi. Uno dei supremi doni della letteratura – Proust insegna – è il consentirci di scoprire un “tempo ritrovato”, ma questo non sarebbe possibile senza un “tempo perso”, così prossimo al “senso perso” di cui parlava il poeta-pittore romano. Viviamo in una società in cui tutto ciò che facciamo sembra dover rispondere a uno scopo ben preciso, a un utile a ogni costo: possiamo ancora permetterci il lusso del gioco, del tempo perso?
Forse nessuno come Toti Scialoja, talento plurimo del nostro secondo ‘900, ha saputo intercettare l’importanza del gioco nella vita emotiva di ogni essere umano. Come ricordava in un’intervista: “Io non mi considero uno specialista dell’infanzia. Quando scrivevo poesie per bambini ero io stesso un bambino che diceva poesia, che si divertiva e giocava. Quello che ricordo di allora. Uno stato d’animo dentro il quale vivo ancora […] il tempo andava all’infinito, lo spazio andava all’infinito e la morte non esisteva”… Il topo che perde tempo, che divaga (in altre parole: che vive) è il poeta-pittore stesso, che — scopriamo — quando era bambino la nonna si divertiva a chiamare “piccolo topino americano”; da qui l’eterna fascinazione per questo animale-totem.
Il tempo del gioco, quello infinito e un po’ angoscioso dell’infanzia è come rinnovato ogni volta che il bambino, diventato grande, si mette davanti a un foglio bianco o gira attorno a una tela, divertendosi a giocare alle parole (non con le parole). L’importanza del ‘tempo perso’ viene ribadita a livello visivo nella copertina e nella pagina d’apertura di Amato topino caro (Bompiani, 1971): i topini/alter ego giocano ripetutamente con le loro codine, un riferimento cifrato alla doppia valenza del termine nella Mouse’s Tale del terzo capitolo di Alice in Wonderland: tail (coda) è omofono di tale (storia), il testo è l’immagine, giocare è giocarsi. Mettendosi in gioco e in ascolto, nel lontano 1961, Scialoja ha fatto in modo di superare una crisi personale e creativa non da poco: non si aspettava che le poesie inviate per lettera al nipotino James Demby nei ritagli di tempo sarebbero state lette e apprezzate al punto da diventare libri pubblicati. Il lusso del tempo perso, della sperimentazione che non porta a risultati immediati (o non ne porta affatto: si nutre di strade interrotte, progetti falliti) è un qualcosa che Scialoja deve aver trasmesso a tanti studenti che, affascinati, venivano ad ascoltarne le lezioni all’Accademia di Belle Arti.
Tra questi Pino Pascali, altro grande fautore del gioco, della sperimentazione e della metamorfosi (il suo animale-totem era non a caso il serpente: “Io son come un serpente/ Ogni anno cambio pelle / La mia pelle non la butto / ma con essa faccio tutto/ Quel che ho fatto di recente/ già da tempo mi repelle”). Dialogando con Carla Lonzi, Pascali porta ancora più in là le convinzioni del maestro-interlocutore: “Non credo che uno scultore faccia un lavoro pesante: gioca, come un pittore gioca, come qualsiasi persona che fa quello che vuole gioca. Non che il gioco sia solo quello dei bambini. È tutto un gioco, no? Ci sono persone che lavorano, dopo, i giochi dell’infanzia, diventano i giochi dell’adolescenza, i giochi dell’adolescenza quelli dell’età adulta, però sono sempre dei giochi. A un certo punto uno è in ufficio, se il lavoro è sgradevole vuole un’automobile potente per fare un giro, proprio perché fa un lavoro che non gli piace, mentre uno a cui piace gioca col lavoro che fa, cioè mette tutto lì dentro. […] Anche i bambini giocano seriamente, è un sistema conoscitivo. I loro giochi sono fatti proprio per sperimentare le cose, per conoscerle e nello stesso tempo, per andare oltre”. Una società sempre più basata sulla performance ci invita ad andare in una direzione opposta rispetto a quella intrapresa da Pascali e Scialoja: produrre a ogni costo, produrre sempre di più. Invertire la rotta è faticoso, richiede esercizio e attenzione costante. Qualche via alternativa ce la apre un recente Quanto Einaudi, Le più brave di Gabriella Dal Lago: “Accordarci a una velocità, aspettarci, prendere fiato, percorrere strade impreviste, divagare e ogni tanto anche fermarci, magari stendendo una coperta su cui dormire, riposare, leggere, oziare. Senza liste di cose da fare, senza obiettivi, senza nessuna gara da vincere: sarà una coperta grande, che accoglierà tutte”.
Viaggi / Miraggi (americani)
Claudio Castellacci
Nel 1956 Scialoja approda a New York e scrive che negli USA “il respiro del lavoro collettivo, organizzato, volto a fare attivamente, produrre, moltiplicare, creava come una sola rete, un’immensa tela di ragno per reggere l’uomo soltanto, l’uomo spoglio di miti, terrori, pregiudizi”. Come per molti artisti italiani del dopoguerra, il primo viaggio negli USA assume dunque i contorni di un miraggio, in cui arte e vita si mescolano ben oltre la proverbiale dimensione del “sogno” americano. In un tuo recente articolo scrivi che “i tecno-oligarchi della Silicon Valley sono tutti convinti di appartenere a un’élite cognitiva; credono fermamente che le loro competenze conferiscano loro una superiorità intrinseca rispetto al resto dell’umanità, giustificandone la posizione di potere”, parole che in questo momento storico – a seguito delle elezioni presidenziali – fanno riflettere più che mai. Si riesce ancora, secondo te, a intravedere quel miraggio americano oggi?
Bella domanda che, purtroppo, prevede una risposta “alla Nino Frassica”: sì e no. Innanzi tutto diciamo che è giusto usare il termine “miraggio” perché oggi sarebbe fuorviante parlare di “mito” o “sogno americano”, come lo si poteva fare ancora fino agli anni Sessanta del Novecento, e come aveva teorizzato James Truslow Adams nel suo The Epic of America (1931): «Quel sogno di una terra in cui la vita dovrebbe essere migliore, più ricca e più completa per tutti, con opportunità per ciascuno in base alle proprie capacità o risultati».
Oggi se per sogno americano – tralasciando quello di Alberto Sordi, il Nando Mericoni “americano del Kansas City”, protagonista del film Un americano a Roma – intendiamo la possibilità di ascendere socialmente attraverso il talento e il duro lavoro, la risposta appare decisamente incerta. Soprattutto incomprensibile per la generazione Tik Tok.
Il modello Silicon Valley ha truccato le carte. I giganti della tecnologia promettono innovazione e prosperità, sì, ma per loro stessi. E hanno finito per dare vita a quell’“élite cognitiva” che si percepisce detentrice di una superiorità fondata su competenze tecnologiche e manageriali.
Ma davvero nomi come Elon Musk, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos incarnano il sogno americano del self-made man? Dietro questa facciata idealizzata, emergono ormai crepe profonde dovute al fatto che i tecno-oligarchi non operano in un vuoto etico o politico; le loro decisioni, hanno un impatto enorme su società sempre più polarizzate. E non solo, il controllo che esercitano sulle infrastrutture digitali globali solleva interrogativi sul rapporto tra innovazione e potere, soprattutto alla luce delle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
E qui torniamo alla domanda iniziale: si riesce ancora a intravedere il miraggio americano oggi? Per certo, in attesa di essere per lo meno ridefinito, non lo sarà per i prossimi quattro anni, non prima delle elezioni presidenziali del 2028. Sempre che The Donald, primo inquilino della Casa Bianca condannato per reati penali, lo permetta.
Già perché il populismo di Trump e il suo desiderio di vendetta (alla Conte di Montecristo) contro oppositori vecchi e nuovi, ha fatto leva su questioni culturali e identitarie, alimentando divisioni apparentemente non ricucibili non solo su temi come l’immigrazione, il multiculturalismo e i diritti civili, ma persino sull’uso del buon senso.
In una parola il sogno americano è stato colpito e affondato. Resta la speranza del miraggio. Sempre che il miraggio, nel frattempo, non sia diventato come quello delle vignette della Settimana Enigmistica.
Mediterraneità / Classicità
Tommaso Braccini
Esiste un fotogramma piuttosto impressionante in cui Pino Pascali cinge e bacia appassionatamente una testa di statua classica mentre fa un bagno in mare. Nel suo Una passeggiata nell’aldilà in compagnia degli antichi (2017, con Silvia Romani) scrivi che bisogna attraversare l’acqua, l’elemento liquido, per approdare nell’oltretomba ed è forse proprio ciò che Pascali aveva in mente unendo attraverso un osculum esemplare arte classica e arte contemporanea. In modo simile, Toti Scialoja afferma di essersi sentito “come ai tempi di Omero” quando ha scoperto (e fatto scoprire ai suoi amici, tra cui Elsa Morante ed Eugenio Montale) la sua amata Procida. Possiamo immaginare, noi umani del terzo millennio, di poter naufragare dolcemente nel mare della classicità per ritrovare scorci di infinito?
Il Mediterraneo, in fondo, è davvero come un Oltretomba da cui talora riemergono, come volti sbiaditi della nostra infanzia che ritroviamo vividissimi in foto a lungo dimenticate, dèi, eroi, sovrani, fauni e ninfe dell’antichità. Che sia nei fondali tra la Sicilia e l’Africa, nelle profondità dell’Egeo, o nei resti sommersi dei viali e dei palazzi di Alessandria, c’è un popolo di granito, di marmo e di bronzo che attende sognando le reti che lo riporteranno tra i vivi. Possiamo sentirli, questi sogni che ci chiamano, quando percorriamo le onde del mare con il nostro sguardo. Il mare, già. Che per i Greci, che più di tutti hanno vissuto in simbiosi con questo elemento, aveva molti nomi. E un modo per ritrovarci in comunione con gli antichi, in una deriva dell’anima in grado di annullare lo spazio e il tempo, è proprio questo: quando siamo di fronte al mare, nella realtà o solo nella nostra mente, chiederci come l’avrebbero chiamato Omero e Platone. Forse thalassa? Una parola archetipica e misteriosa, senza etimologia, che gli antenati dei Greci trovarono già lì quando si affacciarono per la prima volta sulle sponde dell’Egeo? Oppure hals, che indica la sterilità dell’acqua salata? O magari pelagos, la distesa piatta e infinita? O forse, magari, pontos, la parola più impegnativa, quella degli Argonauti che, a bordo della prima nave, aprirono per primi le rotte che collegavano Oriente e Occidente. Pontos è un termine antichissimo, che ha lasciato tracce in varie lingue. Tramite il latino, è anche alla base dell’italiano “ponte”. Perché pontos indica prima di tutto il passaggio, il percorso attraverso le difficoltà e oltre gli ostacoli, che ci porta alla meta, alla scoperta, alla conoscenza nostra e dell’altro. Come il mare, se lo percorriamo con il cuore di Odisseo, di Enea, e di quei cinquanta marinai che per primi lo solcarono a bordo della nave Argo.
Senso / Nonsenso
Massimo Schuster
In Automitobiografia Enrico Baj dà una risposta acuta e ironica a chi pone la domanda cosa vuol dire? davanti a un’opera d’arte: “È il lettore che fa lo scritto. Se lo scritto è incomprensibile, peggio per lui, è colpa sua”. Il rapporto tra senso e nonsenso è uno dei grandi motivi che informa le arti del Novecento, raggiungendo probabilmente nel Teatro dell’assurdo (con Beckett, Genet, Ionesco e Pinter, ma ancor prima con Pirandello) la consacrazione a genere a se stante. Qualcosa di simile è accaduto con il nonsense, definito dalla critica come la forma d’espressione che più conduce il segno – alfabetico o verbale – a divenire fonte d’immagine. Ecco il paradosso, allora: e se il nonsenso avesse a volte più da insegnare del senso?
Ero un ragazzino quando un amico mi raccontò una barzelletta sotto forma di due battute. Eccola:
«Che differenza c’è tra una gallina?»
«Che ha due zampe, ma specialmente la destra.»
A me quella cosa fa ancora ridere oggi, anche se avendola raccontata decine di volte in vita mia ho finito per rendermi conto che fa ridere solo me. Ma non mi fa solo ridere, trovo anche che sia un meraviglioso nonsenso, una cosa che metto sullo stesso piano del Ministry of Silly Walks dei Monty Python, di certe poesie di Lewis Carroll e di molte opere dadaiste.
Comunque sia, visto che la domanda che mi è stata posta è “e se il nonsenso avesse a volte più da insegnare del senso?”, la prima risposta che mi viene da dare è la seguente:
ʽNonsensoʼ ha due n e tre o, ma specialmente una e.
Essendo profondamente convinto che Marcel Duchamp avesse ragione ad affermare che è lo spettatore che fa l’opera, sono felice – e, ammettiamolo, anche un po’ fiero – di permettere al lettore di fare ciò che vorrà della mia risposta, che mi auguro gli insegni cose utili al miglioramento della sua vita.